12/06/12

Dieci

Al secondo anno di università ero arrivato in fondo. Non avevo più forze, non credevo di poter andare più avanti. C'era ancora un po' di inerzia che mi teneva in moto, ma niente più, quando per caso ho conosciuto una compagna di corso. Una ragazza bellissima ed estremamente intelligente. Ma non intelligente secchiona, proprio sveglia, un cervello acuto di quelli che si incontrano di rado. 

Mi risparmio il lato sentimentale della cosa. Comunque, per la cronaca, ovviamente no, non ci ha pensato minimamente di venire con me. E non a torto, intendiamoci. All'epoca ero uno straccio di uomo, e a meno che lei non avesse voglia di tirarmi su col cucchiaino e fare non so ben cosa, non era proprio possibile che avesse voglia di condividere niente più che un amicizia.

Ma non è questo l'importante. Quello che conta è che stando vicino a lei è successa una cosa strana. Avete presente il film "Qualcosa è cambiato"? La storia di un ossessivo-compulsivo che conosce una cameriera con un figlio malato, se ne innamora a modo suo eccetera, non vi rovino la storia se non la conoscete (ma guardatelo che ne vale la pena). C'è questa scena:



In inglese è meglio:


"Mi fai venire voglia di essere un uomo migliore". Così mi ha fatto sentire quella ragazza. La sua voglia di vivere, di fare, di scoprire, ma non per ottuso ottimismo, mi hanno fatto capire quanto fossi sbagliato io e come invece fosse possibile avere entusiasmo senza essere superficiali.

Così, lentamente, qualcosa ha ripreso a muoversi dentro di me. All'inizio semplicemente ho ripreso a pensare al futuro. Poi, senza motivo, ho deciso di fare una cosa che mai avevo pensato: iniziare a fare sport da combattimento. Non chiedetemi perché, che non saprei darvi una risposta. È una decisione che ho preso forse proprio perché era strana, così poco "da me". Forse, incosciamente, ho pensato che se avessi cominciato ad agire come se non fossi quello che ero stato fino ad allora, col tempo sarei anche stato diverso da quello che ero stato fino ad allora.

Ora, immaginate un secchione, grasso e con gli occhiali, che va la prima volta in una palestra dove ci si allena a menarsi. Ho dovuto farmi violenza, superare la timidezza, la vergogna e tutto quanto, ma ci sono andato. 

E mi ha cambiato la vita. Dopo il primo allenamento mi sentivo rinato. Imparare uno sport da combattimento significa imparare da zero ad usare il proprio corpo. Bisogna reimparare a stare in piedi, bisogna reimparare a muoversi in avanti e indietro. Bisogna resettare tutti i propri movimenti e creare una nuova coordinazione. E tutto questo richiede un'enorme concentrazione mentale. 

Stare un'ora e mezza concentrato sul mio corpo (che mi faceva schifo, tra l'altro) mi ha fatto dimenticare per la prima volta dopo anni tutto quello che mi si era incancrenito nel cervello. Un peso mi era stato tolto dal petto e potevo tornare a respirare.

Non so descrivere la sensazione di non avere, anche solo per il tempo di un allenamento, i tuoi fantasmi che ti perseguitano. L'angoscia... non sentire più la morsa dell'angoscia che stringe, assaporare di nuovo il gusto della vita. 

Più avanti ho cominiciato anche a combattere. E lì è stata la vera rivelazione. Perché combattere ti mette di fronte a tutte le tue paure, a tutte le tue insicurezze, ti fa vedere come reagisci alle situazioni. Solo che non è come fuori dal ring, perché fuori dal ring riesci sempre a nasconderti, a trovare scuse, a far finta di niente. Ma nel ring no, non c'è modo di evitare di sapere come sei.

Il ring ti sbatte in faccia quello che sei veramente e ti mostra le conseguenze del tuo modo di essere. Non è piacevole, soprattutto se sei un secchione grasso, timido ed insicuro. Non è piacevole perché le prendi. Se sei insicuro, le prendi. Se sei timido, le prendi. Se non prendi in mano la situazione, le prendi. 

E quante ne ho prese. Ci ho messo anni a capire e ad accettare come ero. Ma col tempo ho capito cosa dovevo cambiare, a forza di schiaffoni, occhi neri e muscoli doloranti. Le lezioni più importanti della mia vita le ho prese combattendo. Perché nessuno mi diceva che ero una persona meravigliosa però col cavolo che ci passava cinque minuti con me. Nessuno mi diceva che ero tanto intelligente però si metteva col primo imbecille che passava.

No, la lotta mi diceva "sbagli qui, qui e qui. Non fare così, fai cosà." Niente stronzate, niente pillole indorate. Schiaffoni quando porti il peso indietro e cerchi di evitare i colpi per paura di farti male, risultati quando stai ben bilanciato e non hai paura di guardare i pugni che arrivano.  

Personalmente, mi considero un sopravvissuto. Credo che sarei finito presto sotto un metro e mezzo di terra, se non fosse stato per quella compagna di università che ho conosciuto e se non avessi mai indossato i guantoni. Non ho mai ringraziato lei. Oggi è sposata ed ha una bambina e spero un giorno di poterle dire che ho un grosso, grosso debito con lei.

07/06/12

Nove

Ogni tanto mi arriva notizia di qualche suicidio e mi arrivano i commenti delle persone. A volte la reazione è lo stupore di non aver previsto, il chi se lo immaginava, chissà cosa aveva dentro. 

Non credo di sapere cosa abbia passato chi si suicida, ma io non mi meraviglio affatto di questo stupore di fronte a certi suicidi. Perché c'è stato un tempo in cui vedevo nella morte l'unica liberazione e se mi fossi suicidato la reazione di chi mi stava intorno sarebbe stata proprio quella. 

Più o meno da quando avevo sedici ho convissuto con questa merda nella testa. Chiamatela come vi pare, io la chiamo merda e mi scusino le signore. Sto parlando di anni, non di settimane. È andata peggiorando col tempo ed arrivata a farmi desiderare la morte. 

E durante tutto questo tempo nessuno si è mai accorto di niente, nessuno ha mai sospettato che qualcosa non andasse. Non nego di aver fatto di tutto per non farmi scoprire, ma allora devo essere stato un adolescente veramente sveglio per aver preso in giro tutti in maniera così perfetta. E non so - faccio fatica a crederlo. 

Il fatto è che se vai bene a scuola, non ti droghi e non vai a fare festa il sabato sera ti guadagni il biglietto per la santità. Se mangi tanto sei goloso, se stai chiuso in casa con i tuoi libri è perché sei secchione. E questi sono i complimenti. Da quand'ero ragazzino me ne sono sentite dire un po' di tutti i colori. Per me la cosa peggiore era quando mi dicevano che ero stronzo, o misantropo, o qualsiasi variante del caso. Io cercavo solo qualcuno che mi volesse bene, a dire il vero. Non sono mai riuscito a esprimermi molto, lo ammetto. Ma non credo di essere stato peggiore di tanti altri, questo no. Non ho mai voluto male a nessuno, non ho mai giudicato nessuno, non ho mai trattato nessuno senza rispetto.

Simpatico era chi parlava bene, sorrideva tanto e usava la gente per i propri scopi. Io ho sempre parlato poco, sorriso meno e detto le cose in faccia: non proprio la ricetta per vivere in società. Per questo ho scelto come nickname signor Cellophane, perché mi potete guardare e camminare a fianco e non saprete mai che ci sono. 

Ed è anche l'unico motivo per cui scrivo su questo blog. Perché da qualche parte c'è un ragazzino solo e sofferente che sta pensando che morire è meglio di vivere così, e vorrei che sapesse che invece non è solo, che non è il solo, che altri ci sono passati e che no, non voglio raccontargli storie edificanti di unicorni che cacano arcobaleni, perché lo so io come lo sa lui che chi ti sta intorno è raro che ti aiuti. Ma che c'è sempre un modo di uscirne, che quel dolore si può lenire e che la morte non è una soluzione a niente.

02/06/12

Otto

Quando ho preso la maturità, credevo fosse la fine di un incubo. Guardavo all'università come al paradiso perduto, ero convinto che finalmente avrei trovato un ambiente intellettualmente vivo, compagni di studi con cui condividere interessi e idee, professori che mi avrebbero insegnato tanto e bene, che avrei imparato e conosciuto e fatto esperienze.

Mai, mai avrei pensato di potermi sbagliare così tanto. Col senno di poi mi sembra naturale. All'università ci sono quelli che vengono dal liceo e quelli che formano gli insegnanti del liceo; non potevo pensare che l'ambiente sarebbe stato molto diverso.

L'impatto dei miei sogni con la realtà è stato troppo forte. La delusione di essere bloccato ancora una volta in un ambiente asfittico, sterile, senza spunti di interesse si sommò al fatto che non esisteva più quella rete sociale nella quale bene o male ero coinvolto alle superiori. Mi sono ritrovato solo e questa volta per davvero. Solo senza nessuno.

E a quel punto qualcosa si è rotto. Le crepe c'erano già da un po', ma il crollo è avvenuto allora. Con l'università è cominciato il periodo più buio della mia vita e sono scivolato nell'oscurità più densa. Non ricordo nemmeno molto di quel periodo, perché non credo di aver fatto niente a parte studiare, dare esami, mangiare e piangere (oh sì, ed evitare di farmi scoprire che mangiavo e piangevo, ma è sorprendente quanto sia facile nascondere queste due cose a chi ti sta intorno).

Ora, qualcuno potrebbe pensare - anzi pensa all'indicativo, perché lo fanno tutti - che io fossi da solo perché evitavo la gente, e che stessi male perché mi autocommiseravo. No.

È questo che mi faceva impazzire: cercavo, avevo bisogno di qualcuno, ma riuscivo a tenere tutti lontani e non sapevo nemmeno come. E non piangevo perché mi autocommiseravo, ma perché sentivo un dolore così assurdo e intenso che non saprei nemmeno spiegarlo. Era come sentire ogni minuto della tua vita che scorre attraverso il corpo e ti fa male, tanto tanto tanto male. Ed in più non capivo perché, non me lo spiegavo. Non è come il dolore che un lutto provoca, o come quando ti lascia la ragazza: quelli sono dolori veri, hanno una causa e in qualche modo riesci a spiegarli e a sistemarli nell'ordine generale delle cose e a superarli. 

È quando senti questo dolore senza senso che cominci a non starci più molto con la testa. Lo vorresti mandare via, ma non sai neanche indicare dove sia. Non puoi dire "mi fa male la gamba" e non puoi neanche dire "sono così affranto perché è morta una persona cara". E se non lo sai dire e provi a spiegare a qualcuno che stai male, nessuno ti capisce. 

Sto male.
Cos'hai?
Non lo so.
Dove ti fa male?
Non lo so.
Cosa ti senti?
Male. Tanto male.
Ma qui?
No.
Qui?
No.
È successo qualcosa?
No.
E allora non hai niente.
Ma... ma... sto male... tanto...
Ma non hai niente.

E smetti di chiedere aiuto, perché pensi che magari col dolore ci puoi convivere, ma diventare matto no, non te lo puoi permettere. Non parlarne più, nasconditi, e se proprio senti che non ce la fai, vai in cucina. Poi vai in camera e masturbati. Poi dormi, che quando dormi non senti niente.

Dormire, dormire aiuta, quando dormi non senti, non è come una ferita aperta che non ti lascia dormire perché fa male anche quando dormi. Quando dormi non ci sei e non fa male, e se non fa male per qualche ora recuperi le forze per tirare avanti un giorno ancora, fino alla prossima notte. Dormi, un giorno ancora, un giorno in più ce la puoi fare, un'ora alla volta, sessanta lentissimi minuti che non passano mai.

Ho sentito dire che quando ti viene il mal di denti è così insopportabile che faresti qualsiasi cosa e cominci a pensare a strappartelo da solo quel dente, perché quello che conta è che passi il dolore, a qualunque costo.

Quando è la tua stessa esistenza che ti fa soffrire fino alle lacrime... sì, ci arrivi a quel punto. Non importa più niente, conta che il dolore passi, e di sicuro se ti togli la vita passa.

Quel dente non me lo sono mai strappato, ma ho aspettato tanto che un qualche evento me lo portasse via.