02/06/12

Otto

Quando ho preso la maturità, credevo fosse la fine di un incubo. Guardavo all'università come al paradiso perduto, ero convinto che finalmente avrei trovato un ambiente intellettualmente vivo, compagni di studi con cui condividere interessi e idee, professori che mi avrebbero insegnato tanto e bene, che avrei imparato e conosciuto e fatto esperienze.

Mai, mai avrei pensato di potermi sbagliare così tanto. Col senno di poi mi sembra naturale. All'università ci sono quelli che vengono dal liceo e quelli che formano gli insegnanti del liceo; non potevo pensare che l'ambiente sarebbe stato molto diverso.

L'impatto dei miei sogni con la realtà è stato troppo forte. La delusione di essere bloccato ancora una volta in un ambiente asfittico, sterile, senza spunti di interesse si sommò al fatto che non esisteva più quella rete sociale nella quale bene o male ero coinvolto alle superiori. Mi sono ritrovato solo e questa volta per davvero. Solo senza nessuno.

E a quel punto qualcosa si è rotto. Le crepe c'erano già da un po', ma il crollo è avvenuto allora. Con l'università è cominciato il periodo più buio della mia vita e sono scivolato nell'oscurità più densa. Non ricordo nemmeno molto di quel periodo, perché non credo di aver fatto niente a parte studiare, dare esami, mangiare e piangere (oh sì, ed evitare di farmi scoprire che mangiavo e piangevo, ma è sorprendente quanto sia facile nascondere queste due cose a chi ti sta intorno).

Ora, qualcuno potrebbe pensare - anzi pensa all'indicativo, perché lo fanno tutti - che io fossi da solo perché evitavo la gente, e che stessi male perché mi autocommiseravo. No.

È questo che mi faceva impazzire: cercavo, avevo bisogno di qualcuno, ma riuscivo a tenere tutti lontani e non sapevo nemmeno come. E non piangevo perché mi autocommiseravo, ma perché sentivo un dolore così assurdo e intenso che non saprei nemmeno spiegarlo. Era come sentire ogni minuto della tua vita che scorre attraverso il corpo e ti fa male, tanto tanto tanto male. Ed in più non capivo perché, non me lo spiegavo. Non è come il dolore che un lutto provoca, o come quando ti lascia la ragazza: quelli sono dolori veri, hanno una causa e in qualche modo riesci a spiegarli e a sistemarli nell'ordine generale delle cose e a superarli. 

È quando senti questo dolore senza senso che cominci a non starci più molto con la testa. Lo vorresti mandare via, ma non sai neanche indicare dove sia. Non puoi dire "mi fa male la gamba" e non puoi neanche dire "sono così affranto perché è morta una persona cara". E se non lo sai dire e provi a spiegare a qualcuno che stai male, nessuno ti capisce. 

Sto male.
Cos'hai?
Non lo so.
Dove ti fa male?
Non lo so.
Cosa ti senti?
Male. Tanto male.
Ma qui?
No.
Qui?
No.
È successo qualcosa?
No.
E allora non hai niente.
Ma... ma... sto male... tanto...
Ma non hai niente.

E smetti di chiedere aiuto, perché pensi che magari col dolore ci puoi convivere, ma diventare matto no, non te lo puoi permettere. Non parlarne più, nasconditi, e se proprio senti che non ce la fai, vai in cucina. Poi vai in camera e masturbati. Poi dormi, che quando dormi non senti niente.

Dormire, dormire aiuta, quando dormi non senti, non è come una ferita aperta che non ti lascia dormire perché fa male anche quando dormi. Quando dormi non ci sei e non fa male, e se non fa male per qualche ora recuperi le forze per tirare avanti un giorno ancora, fino alla prossima notte. Dormi, un giorno ancora, un giorno in più ce la puoi fare, un'ora alla volta, sessanta lentissimi minuti che non passano mai.

Ho sentito dire che quando ti viene il mal di denti è così insopportabile che faresti qualsiasi cosa e cominci a pensare a strappartelo da solo quel dente, perché quello che conta è che passi il dolore, a qualunque costo.

Quando è la tua stessa esistenza che ti fa soffrire fino alle lacrime... sì, ci arrivi a quel punto. Non importa più niente, conta che il dolore passi, e di sicuro se ti togli la vita passa.

Quel dente non me lo sono mai strappato, ma ho aspettato tanto che un qualche evento me lo portasse via.

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